In questa questione il linguaggio non ci viene di certo in aiuto: persone di colore, negri, africani, nigga, neri, black men, sono tutti vocaboli che appena li leggiamo sembrano aver ben poco a che fare con l’integrazione ed il riconoscimento. Quale scegliere?
Forse però, a pensarci bene, questo è un falso problema. Non è la parola a fare di chi la pronuncia un razzista ma è ciò che la suppone, ciò che le sta intorno e la riempie di significato. Penso che è proprio in quell'attimo di incertezza che precede la scelta dell’aggettivo da utilizzare che si annida il razzismo, o meglio la paura di essere definiti e crocifissi come tali. È proprio nel momento in cui mi chiedo cosa dire per non essere qualificato come tale che perdo di vista la persona che mi sta davanti, che perdo di vista l’altro come Altro da me, differente ma non diverso.
Viviamo in un mondo (o in una parte di mondo) pieno di persone pronte a puntare il dito, ad offendere, e spesso a farlo sono le stesse persone che poi di fronte ad un fatto di cronaca ci tengono a precisare (come fanno anche molti tele-giornalisti) la nazionalità del colpevole (chiaramente laddove non sia italiana). Alla fine ci troviamo in una condizione in cui a mancarci sono proprio gli aggettivi per indicare l’Altro, divenuti così ad un tratto oscuramente minacciosi, e quindi anche l’Altro in sé. Fortunatamente esistono i nomi propri, se almeno vogliamo fare la fatica di impararli.
P.S: Come facciamo a promuovere una cultura dell’integrazione se per ogni fatto di cronaca nera (nera!) dobbiamo precisare l’etnia di appartenenza del colpevole?
Ancora una volta, non è che non si debba dire (altrimenti diventeremmo razzisti al contrario) ma è il come lo si dice; e a sentire l’opinione pubblica spesso non sono solo mere informazioni quanto, già in sé, notizie.
Dott.Fabio Del Ben
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