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Il “razzismo delle piccole cose” tra Mondiali e crociere.

razzismo calcio

Guardando i telegiornali possiamo notare come, nelle ultime settimane, si siano susseguiti almeno due temi: quello dell’immigrazione e i Mondiali di calcio in Russia. Se ci spingiamo un po’ più in profondità, possiamo notare come, dopo tutto, questi due gruppi di notizie non siano così lontane tra loro ma attraggano degli spunti di riflessione comuni. Potremmo dire che i due temi si “integrano”, trovano un terreno comune che può essere anche quello di un campo di calcio. Del resto in campo, si possono trovare persone di ogni etnia e religione che si affrontano per portare prestigio alla propria nazione di appartenenza, orgogliosi della casacca che indossano. Capita talvolta, e mi riferisco anche alle partite nelle varie organizzazioni nazionali, di sentire i tifosi che fischiano un giocatore, mostrando il loro disappunto. L’aspetto curioso è che nella misura in cui i fischi sono indirizzati ad un giocatore di carnagione chiara tutti siamo d'accordo nell'affermare che, in un certo senso, tale disappunto è giustificato dal mancato passaggio o dall'errore sotto porta; se invece il disappunto dei tifosi è indirizzato ad un giocatore di carnagione scura (di solito sono i casi che fanno più notizia) allora siamo tutti concordi nel catalogare tale gesto come razzista e degno di essere condannato. Generalmente i telecronisti sono i primi a compiere tale passaggio di pensiero attirando spesso l’opinione dei tifosi all'ascolto: il “buuh” a quel giocatore è stato fatto solo per il colore della pelle, opinionisti indignati, ospiti dei vari programmi televisivi pronti a condannare il gesto e via così.

Fermiamoci un attimo. Prendiamoci qualche secondo per riflettere su quanto è accaduto e per farci un pensiero: ci vuole solo qualche secondo in più, col vantaggio, però, di riuscire a farsi una propria opinione e di non seguirne una preconfezionata.

Quando sentii qualche tempo fa un “buuh” rivolto ad un giocatore, ricordo che pensai che se lo fosse meritato. Se lo era meritato perché aveva giocato male. Si proprio perché aveva giocato male, non per il colore della pelle, non per l’etnia, non per la religione. Aveva giocato al di sotto delle proprie possibilità in maniera svogliata e poco professionale.

Si può parlare allora di razzismo? Mi sembra proprio di no.

Se apriamo la pagina dell’Enciclopedia Treccani alla voce "razzismo", troviamo: “Concezione fondata sul presupposto che esistano razze umane biologicamente e storicamente superiori ad altre razze. È alla base di una prassi politica volta, con discriminazioni e persecuzioni, a garantire la 'purezza' e il predominio della 'razza superiore'”. È opportuno fare una precisazione: certamente all'interno del gruppo di persone che criticano un giocatore (ma tale discorso potrebbe benissimo valere per qualsiasi persona che incontriamo nella nostra vita di tutti i giorni) ce ne sono alcune che puntano ad offenderlo utilizzando come pretesto qualche sua caratteristica legata ad un’appartenenza politica, religiosa od al colore della pelle: in questo caso mi sembra opportuno, o quanto meno lecito, parlare di razzismo. È anche vero, però, che molti altri criticano un atleta per il fatto di non essere stato un professionista nel suo campo, così come criticheremmo noi stessi o un collega, probabilmente con modi più educati (spesso il tifo, si sa, esalta la "bestialità" dell’essere umano), per non aver svolto adeguatamente un certo compito perché svogliati o pigri. Il punto però non è tanto il fatto di criticare o no, quanto quello di far passare un giudizio (magari espresso con troppa foga e veemenza) come razzista.

Viene allora da farsi una domanda. Il cronista che spaccia la critica rivolta ad un giocatore con caratteristiche diverse dalle sue per razzista, non è forse il primo razzista? E non diventa tale nella misura in cui considera la critica non verso l’errore ma verso il colore od altri aspetti extra-gioco? È una domanda che vale la pena farsi anche, se non altro, per avere un po’ di spazio di pensiero in più capace di guidarci in una direzione o nell'altra.

E tale fallacia non riguarda solo l'etnia ma anche il genere. Ci sono volute decine e decine di anni per garantire alla donna gli stessi diritti dell’uomo, da quelli civili, all'uguaglianza di genere, al lavoro, al diritto di pensiero passando per quello allo studio ed alla salute. Purtroppo però ci accorgiamo che talvolta questi diritti sembrano venire meno facendoci così ritornare indietro di molti anni. Non serve cercare chissà quali casi particolari o scandali nel mondo cinematografico: basta accendere la televisione, basta ascoltare le pubblicità. Certo bisogna ascoltare con attenzione, cosa che purtroppo si tende a fare sempre meno. Quante volte abbiamo sentito di offerte per vacanze, sconti per abiti o ingressi agevolati riservati alle donne? E quante volte ci si è opposti ad esse? È chiaro che a tutti fa piacere risparmiare e il punto, ancora una volta, non sta nel dire se sia giusto o sbagliato. Il punto sta nel riconoscere come il razzismo spesso si annidi anche nelle piccole cose, nel risalto dato ad un “buuh” da un telecronista o in uno sconto per una vacanza, e nell'ammettere quanto sia difficile spesso accorgerci della sua presenza perché troppo presi dall'esprimere la nostra indignazione sui social o dal tentativo di salire su una barca, quella del “Tu sei, io invece”, capace di attrarci e di catturarci.

Dott. Fabio Del Ben

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